Dall'Abellinum romana all'Atripalda medioevale
Ma ritorniamo ora alla vita civile ed amministrativa di Abellinum durante gli ultimi secoli dell'impero. Alla fine del III secolo, proprio mentre ferveva la predicazione di S. Ippolisto, l'imperatore Diocleziano assegnò ai suoi veterani terre della colonia abellinate. Nel 365 il senato civico (P"Ordo splendidissima") ottenne un memorabile rescritto dagli imperatori Valentiniano e Valente, con cui fu ingiunto alla massima autorità imperiale in Italia, il vicario di Roma Severo, di recedere dagli atti arbitrari commessi ai danni dell'autonomia amministrativa della colonia, le cui antiche consuetudini (:'vetustae consuetudines") di autogoverno avevano subito grave pregiudizio. Successore di Stilicone nella carica di capo supremo delle forze armate dell'impero fu Olimpio Novio Giusto (408), di probabile ascendenza abellinate (ad Abellinum vi era infatti una "gens Giusta"), ed allora i decurioni, per guadagnarsi in quei tempi calamitosi la protezione del potente ministro, lo ascrissero solennemente al proprio "Ordo". Tale atto deve essere messo forse in relazione con l'invasione dei Visigoti di Alarico, che nel 410 saccheggiarono Roma, calando successivamente nel Mezzogiorno fino nel Bruzio. L'Irpinia fu però salva dall'incursione dei barbari, perché fuori dal tracciato della Capua-Reggio, e perché Nola resistette vittoriosamente ai Visigoti. Anche dopo la fine dell'impero non mutarono sostanzialmente le condizioni di Abellinum, che aveva conservato le sue libertà municipali ed il suo ordinamento amministrativo. Dopo il lungo periodo di pace assicurato dal regno dell'ostrogoto Teodorico (493-526) la situazione precipitò però rovinosamente con lo scoppio della lunga e tormentosa guerra goto-bizantina (535-553). Conquistate da Belisario tra il 536 ed il 539, Abellinum e PIrpinia vennero strappate ai Bizantini dopo il 543 ad opera di Totila, che anche ad Abellinum, probabilmente, fece diroccare parte delle mura di cinta della città, affinché non potessero asserragliarvisi i Bizantini. Tramontate definitivamente le fortune dei Goti con la battaglia del Vesuvio (552), l'Irpinia fu teatro dell'estrema e disperata resistenza di questo popolo. Snidati infine i Goti dalle ultime roccaforti dell'alta valle dell'Ofanto, intorno a Conza, tutta l'Irpinia fu completamente assoggettata al dominio dell'impero bizantino (555). Ma questo venne ad impadronirsi di una regione ampiamente desolata e devastata, immiserita e spopolata da un ventennio di guerra continua e feroce, ed a cui assestarono ora nuovi colpi pestilenze e carestie. Intorno al 570 il dominio bizantino fu travolto dall'invasione dei Longobardi. Quando questi conquistarono Abellinum, la città doveva essere ridotta in assai misere condizioni. Abellinum costituiva tuttavia un centro demografico, religioso, commerciale ed amministrativo ancora notevole, collocato in una posizione strategica essenziale per l'irradiamento del dominio longobardo nel Mezzogiorno, essendo il suo territorio volto verso Salerno, Nola e Conza. E' assai improbabile che la popolazione abbia opposto resistenza agli invasori, avendo i Bizantini concentrato le proprie forze nel ridotto fortificato dell'alta valle dell'Ofanto, arroccati nel quale riuscirono per qualche anno a tener testa ai Longobardi. Questi ultimi si impadronirono, oltre alle terre del demanio pubblico e della Chiesa, anche delle proprietà private, che vennero suddivise tra i diversi clan ("fare") secondo l'importanza di ciascuno di questi. Per sfuggire all'eliminazione fisica o all'assoggettamento in servitù, i ceti dirigenti latini, laici ed ecclesiastici, fuggirono verso le città della costa, come Napoli, rimaste sotto la sovranità bizantina. La condizione politico-giuridica delle popolazioni assoggettate fu invece assai dura. Esse persero infatti del tutto le proprie istituzioni ed i propri ordinamenti giuridici, risultando inoltre pienamente subalterne ai conquistatori con la perdita della proprietà della terra ed il pagamento del tributo. Anche la libertà del culto cattolico (i Longobardi erano per la maggior parte ariani) fu inizialmente conculcata, e la conquista longobarda assestò l'ultimo colpo alle strutture ecclesiastiche tardoromane, già largamente dissestate dalla guerra goto-bizantina. Insieme con un'ottantina di altre diocesi italiane, anche quella di Abellinum infatti scomparve nella seconda metà del VI secolo, anche se tale fenomeno non può essere esclusivamente fatto risalire alla conquista longobarda. L'insediamento dei longobardi ebbe carattere preminentemente militare. Essi erano inoltre in numero abbastanza ridotto, e ciò spiega come essi finissero con lo stabilire il proprio centro amministrativo e militare, cioè la sede del gastaldato, a breve distanza da Abellinum. Questo sorse in una zona strategicamente importante ed agevolmente difendibile, li dove la piana avellinese subisce una brusca strozzatura ad opera di due dorsali selvose, le colline dei "Palombi" e del "Parco". Al centro, isolata da queste, si eleva la collina della "Terra", dall'* rendici ripide e scarpate, che costituiva quindi la sede ideale per un insediamento fortificato, sicuro ma di modeste proporzioni. Tale prassi fu quella tipica e generalizzata dei Longobardi, che si stabilirono quasi ovunque con insediamenti fortificati nei pressi delle antiche città. Essi opposero infatti Cividale ad Aquileia, Fiesole a Firenze, Parma a Piacenza, e preferirono centri nuovi e minori alle maggiori città della civiltà e della tradizione romana. Quando su Abellinum calarono i longobardi (570 d.C), la città presentò ai conquistatori un aspetto ed una condizione assai decaduti rispetto a quelli del passato. La lunga e devastatrice guerra goto-bizantina (535-555), la grande pestilenza del 565, le ricorrenti carestie e la generale involuzione registrata dalle strutture civili del mondo romano negli ultimi due secoli avevano di certo fortemente impoverito e ridotto di numero la popolazione, che sempre più intensamente tendeva ad abbandonare il centro urbano le cui attività tradizionali, basate sul commercio e l'artigianato, versavano in profondissima crisi, per cercare rifugio nelle "villae", nei "vici" e nei "pagi" che numerosi facevano corona ad Abellinum. Fu tuttavia soltanto con la conquista longobarda che il processo di decadenza della città romana subi una accelerazione redicale e definitiva. Alla lenta involuzione delle strutture economico-sociali ed al progressivo abbandono del vecchio centro urbano successero, infatti, la distruzione e lo spopolamento. Né la tenace resistenza di ridotti nuclei di popolazione sui ruderi di Abellinum - attestata da recenti rinvenimenti di frammenti ceramici alto-medioevali - può costituire indizio sufficiente a far ritenere che la vecchia città, in quanto struttura urbana e civile, sia sopravvissuta di molto all'invasione longobarda. A riprova di tale realtà è sufficiente l'esame del quadro che i documenti permettono di tracciare per la stessa zona circa cinquecento anni più tardi. Quando, infatti, intorno al Mille, il lungo ed oscuro silenzio finalmente si rompe, della passata civiltà romana non avanza neppure il più pallido barlume. Abellinum - con le sue lunghe mura poderose, i suoi templi ed i suoi ricchi edifici pubblici - è scomparsa del tutto, ed i suoi ruderi irriconoscibili sono ricoperti e quasi soffocati da una fitta boscaglia. Di Abellinum in quanto tale si è persa ormai ogni coscienza e cognizione, tanto che le rovine dell'antica città non vengono altrimenti indicate, nei documenti del tempo, che come "veterales", anticaglie cioè, di cui non si conosce nemmeno più la denominazione originaria. Un immenso e fittissimo bosco secolare ricopre l'intera valle del Sabato, soffocando e cancellando in gran parte l'opera della colonizzazione romana. Solo intorno ai castelli arroccati sulle cime delle colline ed ai minuscoli borghi che si stendono ai loro piedi il bosco cede il passo, per breve tratto, ai terreni coltivati. 11 massimo proprietario fondiario della zona è il conte longobardo di Avellino, che esercita la sua giurisdizione sui pochi vassalli sparsi nell'area urbana ed extraurbana dell'antica Abellinum, al di qua ed al di là del Sabato, attraverso un suo gastaldo, insediato nel castello sorto sul culmine della collina già sede dell'antico tempio di Diana. Cospicui possessi vantano pure il vescovo ed i canonici del Duomo di Avellino, dai quali, inoltre, dipende la principale e più antica chiesa della zona, quella di Sant'Ippolisto. Assai scarsi, e sparsi tutti nelle campagne, sono poi gli abitanti, ancora in rapporto di dipendenza servile o semiservile nei confronti del conte o del vescovo. Per quanto riguarda il paesaggio agrario, nettamente predominante è il già ricordato "nemus magnum", pertinenza esclusiva e riservata del conte, e numerose sono le terre "vacue", cioè non coltivate. Nella zona valliva e pianeggiante, invece, non infrequenti sono nocelleti, vigneti e terreni seminatorii. L'intera area dell'antica Abellinum, nel cui ambito sorgerà poi Atripalda, è quindi a tutti gli effetti una dipendenza diretta e completa - politicamente, amministrativamente, ecclesiasticamente - della vicina Avellino, sede dei conti longobardi. E' questo un dato da tenere ben presente, e che spiega in larga misura i contrasti e le rivalità che opporranno Avellino ad Atripalda nei secoli successivi. Lungo la riva destra del fiume, fuori di quello che era stato il perimetro urbano di Abellinum, è però già possibile scorgere segni più intensi di vita e di attività. Sulla cima della collina, che in epoca romana era stata sede del tempio di Diana, sorgono ora la chiesa di San Pietro ed un castello, eretto dai conti longobardi per il controllo delle vie che dalla valle del Sabato si diramano verso la valle del Calore. Dal castello scende una "via publica", che raggiunge verso il fondovalle l'antica chiesa paleocristiana di Sant'Ippolisto. Non lontana da questa, a breve distanza dal Sabato, vi è poi la chiesa di Santa Maria. Sempre scendendo a valle lungo la strada, si raggiunge il fiume presso il mulino degli Archi, di proprietà dei conti di Avellino, che hanno concesso alla chiesa di Santa Maria, probabilmente da essi stessi fondata, il diritto di esigere la decima su tutti i cereali sfarinati dal mulino. Quest'ultimo, oltre a rilevanza economica, ha importanza strategica, in quanto controlla il principale guado tra le due rive del Sabato. Il nome di Archi veniva al mulino dai resti delle arcate del poderoso ponte-acquedotto romano che recava ad Abellinum le acque delle sorgenti del Sabato. Semplici cappelle rurali sono poi quelle di Sant'Angelo "de testa", di Santa Maria de Campora, di Sant'Andrea e della Maddalena, mentre assai più importante è la chiesa di San Nicola, edificata sui resti dell'antico tempio di Giove; risulta infatti da un documento del 1289 che ad essa erano state concesse in epoca imprecisata un suffeudo rustico ed i diritti di decima sui proventi del bosco feudale, della bagliva, della "piazza" e del terratico. Il principale nucleo, intorno a cui di lì a poco si accorporerà la futura Atripalda, è quello costituito dall'asse Sant'lppolisto-Santa Maria-Archi. Anche se per il momento non sussiste ancora alcuna continuità edilizia tra questi tre elementi, è però significativo l'accentrarsi in questa area, relativamente ristretta, di importanti funzioni religiose, economiche e commerciali. La presenza del mulino e del prossimo guado, presumibilmente assai frequentato, configurano già, sia pure in germe, le spiccate vocazioni industriali e commerciali di Atripalda, e neppure va trascurato il ruolo di autorevole punto di riferimento, per tradizione religiosa e centralità topografica, esercitato dalla chiesa di Sant'Ippolisto, sulla quale occorre pertanto soffermarsi. A testimonianza efficace dell'influsso esercitato dal valori spirituali anche nelle epoche più oscure, pur dopo la scomparsa di Abellinum ed il crollo dell'intera civiltà romana, la cripta dei martiri continuò ad essere oggetto di costante e fervida devozione da parte delle superstiti popolazioni e degli stessi longobardi, successivamente alla loro conversione al cattolicesimo. Quando, intorno al Mille, un fremito nuovo di vita ed un rinnovato fervore di attività e di progresso percorsero ed animarono l'intera società medioevale, ripercuotendosi anche sulle rive del Sabato, l'antica e venerata chiesa di Sant'Ippolisto, sopravvissuta a tanto volgere di eventi, venne a costituire il naturale fulcro, ideale ed urbanistico, del nuovo centro che, raggruppando ed inglobando gli sparsi nuclei esistenti ed attirando a sé nuovi gruppi di popolazione, cominciò a svilupparsi sulla riva destra del Sabato, tra la collina del castello ed il mulino degli Archi. A questo processo, indubbiamente lento e da tempo in atto, una accelerazione decisiva impresse Truppoaldo Racco, della famiglia degli Adelferii, i conti longobardi di Avellino, che, negli anni intorno al Mille, ereditò la parte orientale della contea, lungo la riva destra del Sabato. Il nuovo signore s'insediò nel castello sulla collina, che da lui venne probabilmente potenziato e ristrutturato, e che divenne il centro dei suoi dominii. Questo avvenimento segnò una svolta decisiva nella storia di Atripalda, che appunto ora si accinge a nascere come entità autonoma. E' più che probabile, infatti, che Truppoaldo sia intervenuto direttamente nella creazione di un borgo murato intorno alla chiesa di Sant'Ippolisto, incentivando in varie forme lo stabilirsi ed il concentrarsi degli abitanti dei dintorni nel nuovo centro, che, a riprova dell'incisività e dell'efficacia dell'intervento effettuato dal nobile longobardo, da lui trasse nome. Va rilevato che la scelta di Truppoaldo non fu certamente casuale ed occasionale, poiché la posizione del castello e del nuovo centro abitato, che controllava i guadi del Fiume ed il sistema viario che dall'alta valle del Sabato si irradiava verso Benevento e l'Alta Irpinia, aveva rilevanza strategica notevolissima. Con felice intuizione, il nuovo signore intese inoltre, attraverso la creazione del borgo, valorizzare e sfruttare efficacemente le risorse naturali ed ambientali che il luogo offriva. Atripalda venne in effetti a giovarsi sin dalla sua fondazione di un cospicuo complesso di fattori favorevoli, alcuni congiunturali, altri strutturali, presenza diretta del signore, che dall'alto del suo castello assicurava la sicurezza esterna e l'ordine interno; preesistenza in loco di una sede di culto antica e prestigiosa come la chiesa di Sant'Ippolisto; felicissima posizione naturale, infine, che, oltre a permettere lo sfruttamento dell'energia idraulica per alimentare mulini ed in seguito ferriere e gualchiere, si prestava ottimamente all'esercizio dell'attività commerciale, con rilevante profitto economico per il feudatario, attraverso l'esazione del diritto di passo e di "piazza" su tutte le merci in transito o vendute al mercato. Per tutti questi fattori rapido e notevole fu lo sviluppo di Atripalda tra l'XI ed il XIV secolo. Che le attività mercantili vi fossero fiorenti vi è varia testimonianza nei documenti, e che il mercato di Atripalda fosse frequentato ed accorsato, costituendo un sicuro punto di riferimento per tutti i paesi vicini, risulta già da un documento del 1272. Nel 1315, poi, Roberto d'Angiò concesse agli atripaldesi di tenere una fiera annuale di cinque giorni, a partire dal 1° maggio, ma si trattò in realtà della conferma ufficiale di una tradizione già da tempo praticata, come specifica lo stesso privilegio del sovrano angioino. Altra conferma della prosperità commerciale atripaldese è contenuta nei capitoli matrimoniali del 1332 tra Simona Orsini, signora di Atripalda, e Tommaso Marzano, nei quali sono ricordati i cospicui cespiti feudali costituiti dalla dogana e dal diritto di piazza. Nello stesso documento, tra le componenti principali della rendita feudale, sono anche ricordati i proventi derivanti dal legname del bosco, dai mulini e dalle ferriere. I feudatari erano infatti intervenuti direttamente nello sfruttamento delle potenzialità industriali, incrementando la tradizionale attività molitoria e, soprattutto, impiantando alcune ferriere. Questa importante innovazione dovette avvenire nei primi anni del '300 ad opera degli Orsini. Nel 1316, infatti, era stato concesso a Nicola Della Marra, signore di Serino, di costruire nuove forge nel suo feudo, potenziando così la lavorazione del ferro che da tempo vi veniva esercitata, ed è probabile che anche gli Orsini, da poco successi ai Montfort nel feudo di Atripalda, abbiano voluto seguire l'esempio dei Della Marra. Anche in Atripalda, infatti, erano in larga misura disponibili i fattori fondamentali per l'esercizio della nuova attività industriale, e cioè l'energia idraulica, assicurata dal Sabato e dalla Salzola, ed il legname del grande bosco feudale per l'alimentazione delle forge. E' importante e significativo sottolineare come l'introduzione dell'industria siderurgica ad Atripalda si collochi nel quadro della "rivoluzione tecnologica" del basso Medioevo. Sino al XIII secolo circa, infatti, il ferro si era ottenuto in Europa mediante la "riduzione" dei minerali, misti a carbone vegetale, posti all'aria aperta o appena circondati da un muricciolo di pietre. Soffiando aria con mantici a mano, la fiamma veniva attizzata, ma la temperatuta della massa non poteva mantenersi costantemente al punto di fusione del ferro (1530 gradi circa) a causa delle continue dispersioni di calore. Si otteneva quindi soltanto una spugna di ferro ricca di impurità, che doveva essere battuta a caldo per divenire una massa compatta, resistente ed omogenea. Per ottenere direttamente questo prodotto, bisogna invece raggiungere la liquefazione completa, e questa si può avere solo ad alte temperature, prodotte da correnti d'aria ben più forti di quelle ottenute con i primitivi mantici a forza d'uomo. Per questo l'applicazione del mulino ad acqua - cioè la concentrazione di potenza dovuta all'energia idraulica - al forno metallurgico costituì un elemento nuovo e decisivo, destinato ad aprire orizzonti nuovi alla società europea. L'energia del mulino ad acqua venne infatti da allora usata per il funzionamento di grossi mantici, permettendo di effettuare la combustione in un forno di dimensioni assai maggiori ed a temperature ben più elevate, ottenendo in tal modo la fusione completa del minerale. L'energia idraulica, inoltre, fu ingegnosamente applicata a nuove macchine, come grandi magli per forgiare i metalli. Anche in questo campo, quindi, lo sviluppo industriale e tecnologico di Atripalda risulta in piena ed organica sintonia con la generale evoluzione della più avanzata società europea del XIV secolo. E' anche certo, altresì, che l'iniziativa industriale degli Orsini si sia inserita su di una preesistente, anche se più modesta e tradizionale, attività siderurgica locale. La presenza di fabbri in Atripalda è infatti documentata già dai primi anni del XII secolo,, La "legenda" di San Guglielmo da Vercelli narra che il santo, proveniente dalla Puglia, giunse durante le sue peregrinazioni ad Atripalda ("Tripaldum"), che definisce un piccolo borgo ("vicum"). Qui egli si trattenne presso una pia donna, apprendendo da essa e dagli abitanti utili notizie su Montevergine, dove intendeva recarsi per condurvi vita eremitica. Ma intanto, rompendosi troppo di frequente i cerchi di ferro che indossava sulla nuda carne a scopo di penitenza, ed essendo pertanto costretto a mostrarli ai fabbri del luogo per farli riparare, decise di munirsi di una vera e propria corazza, per procurarsi la quale si recò a Salerno. Ritornato ad Atripalda, si fece costruire sul posto, da un abile fabbro, una cuffia di ferro su misura, da portare nascostamente sotto il copricapo, sempre a scopo di penitenza. Lasciata poi Atripalda, San Guglielmo, andò a Montevergine (1119), dando così inizio alla seconda e più feconda fase del suo apostolato. Ci siamo soffermati su ques'episodio perché esso attesta come già agli inzi del XII secolo Atripalda, pur non essendo ancora molto più di un piccolo borgo, costituisse un nodo stradale e commerciale notevole. Ma se il progresso di Atripalda fu essenzialmente industriale e commerciale, non va neppure trascurata l'evoluzione della sua agricoltura, con la progressiva messa a coltura di sempre nuove terre strappate al bosco con l'impianto di vigneti e noccioleti. Alla vivace dinamica della vita economica atripaldese corrisposero notevoli novità nel campo politico, col passaggio del feudo a diversi signori, che esercitarono tutti un ruolo cospicuo, oltre che nella sfera puramente locale, anche nel più vasto campo del regno. Il possesso del feudo si frazionò nel corso dell'XI e del XII secolo tra i discendenti di Truppoaldo, che, secondo l'uso longobardo, continuarono a dividersi ed a suddividersi, sino all'avvento dei normanni, le terre della parte orientale della vecchia contea di Avellino. Nel 1206 il feudo riappare finalmente unificato nelle mani di Ruggero de Lauro, al quale successe, probabilmente per motivi ereditari, il nobile napoletano Giacomo Capece. Questi, che faceva parte della ristretta cerchia dei più intimi e fidati collaboratori di Federico II di Svevia, avviò un'energica azione volta alla reintegrazione del demanio feudale, a suo avviso gravemente ed illegittimamente intaccato dall'eccessiva liberalità dei suoi predecessori. 11 Capece contestava, in particolare, l'ampia donazione effettuata nel 1174 dal feudatario Guglielmo alla chiesa di Santa Maria, divenuta priorato cavense, che contemplava tra l'altro per i monaci il diritto di legnare nel bosco feudale e di sfarinare gratuitamente nel mulino degli Archi; mulino che lo stesso Guglielmo, nel 1184, aveva poi donato per metà alla chiesa di Santa Maria. Nei torbidi causati dalla fine della dinastia normanna e dalla minorità di Federico II, l'altra metà del mulino, per circostanze oscure, aveva invece finito col passare in possesso dell'abbazia di Montevergine. Nel 1232 una curia imperiale, innanzi alla quale era stata presentata la questione dal Capece, sentenziò la reintegrazione a suo favore della metà del mulino usurpata dai monaci verginiani, ma confermò pure il possesso dell'altra metà al priorato cavense di Santa Maria, secondo la donazione del 1174, che era stata a suo tempo corroborata da un privilegio imperiale. Solo parzialmente soddisfatto da tale sentenza, Giacomo Capece, approfittando della sua potenza a corte, privò successivamente i cavensi della parte ad essi spettante, che non fu loro restituita se non dopo la sua morte, ad opera del figlio Marino (1248). Alla caduta della dinasta sveva, privati i Capace del feudo, anche i verginiani rientrarono in possesso della loro quota degli Archi, fino a che, nel 1304, attraverso una permuta tra le due abbazie, l'unità del possesso dell'ambito mulino fu ricomposta a beneficio del priorato cavense. Ma ritorniamo ai Capece. Successo nel 1248 al padre Giacomo, Marino Capece, come il fratello Corrado, continuò a servire fedelmente la dinastia sveva. Nell'ottobre 1254, quando Manfredi, rotte le trattative col pontefice Innocenzo IV, fuggì da Acerra per raggiungere la colonia saracena di Lucera, i fratelli Capece furono tra i pochi fedeli che lo seguirono. Partita nella notte da Acerra, la piccola comitiva prese la via che, attraverso le alte valli del Sabato, del Calore e dell'Ofanto, conduceva in Puglia. Seguendo questo itinerario, infatti, essi avrebbero evitato Ariano, occupata dalle forze pontificie, ed avrebbero incontrato Baiano, il castello del Litto ed Atripalda, feudi dei Capece, ed i numerosi feudi (Volturara, Montemarano, Montella, Bagnoli, Nusco, Conza) che Tommaso d'Aquino, cognato di Manfredi, possedeva in Alta Irpinia. Dopo aver evitato, con difficile tragitto attraverso i monti, Monteforte, soggetta insieme ad Avellino al dominio degli ostili fratelli d'Hohemburg, il piccolo gruppo, guidato da Marino e Corrado Capece, giunse ad Atripalda, nel cui castello, finalmente tra mura amiche, Manfredi potè per qualche ora ristorarsi. Ripreso poi il cammino, nello stesso giorno, a tarda sera, lo Svevo giunse a Nusco, dove pernottò. Attraversata l'Alta Irpinia ed aggirata Ariano, egli raggiunse infine Lucera, accolto trionfalmente dai fedeli saraceni. Da quel momento iniziò la riscossa di Manfredi, che doveva qualche anno più tardi condurlo sul trono (1258). Allora i Capece furono ricolmati di favori ed onori. Fedeli e leali alla causa sveva nella buona come nella cattiva fortuna, essi furono a Benevento (26 febbraio 1266) ancora una volta a fianco del loro re, riuscendo però avventurosamente a sfuggire alla cattura ed alla morte. Mario Capece, come quasi tutti i baroni svevi, di lì a poco si sottomise a Carlo d'Angiò, mentre Corrado, dopo essere fuggito in Sicilia, riparò in Germania, dove contribuì a preparare la spedizione di Corradino di Svevia. E quando, nel 1268, l'ultimo rampollo degli Svevi discese in Italia, una generale insurrezione si produsse nel regno. Marino Capece, che capeggiava la rivolta in Irpinia, dopo aver tentato invano di impadronirsi di Montemarano, in seguito alla battaglia di Tagliacozzo fu costretto a fuggire dal regno, venendo condannato a morte in contumacia ed alla confisca dei beni. Corrado, che era sbarcato in Sicilia, dove era stato sino al 1266 capitano generale, fu invece catturato, accecato ed infine impiccato. Finiva così, tragicamente, il dominio dei Capece su Atripalda, che Carlo d'Angiò concesse il 15 dicembre 1268 a Guido di Montfort. Ma di breve durata fu la signoria del nobile anglofrancese sul feudo atripaldese. Il nome del Montfort, già notissimo in Inghilterra per la feroce lotta che aveva opposto la sua famiglia alla dinastia dei Plantageneti, acquistò presto, con la fama di potenza, anche quella del delitto. Nel marzo 1271, infatti, per vendicare il padre Simone, caduto vittima dei Plantageneti, Guido di Montfort uccise nella cattedrale di Viterbo, alla presenza delle corti papale ed angioina, il giovane Enrico, nipote del re d'Inghilterra. Carlo d'Angiò, allora, lo privò dei feudi e mantenne Atripalda nel demanio regio. Il castello venne affidato ad un castellano nominato dal sovrano, ed esso, per la sua posizione geografica, fu più volte sede dei giustizieri della provincia di Principato. In conseguenza della guerra del Vespro, il feudo fu poi concesso al nobile salernitano Bernardo Scillato (1285), ed infine definitivamente restituito (1293) alla figlia di Guido di Montfort, Anastasia, e per essa al marito Romanello Orsini, conte di Nola. L'apparteneza a signori feudali prestigiosi e potenti quali gli Orsini ed il fervore di attività economiche e produttive che così fortemente la caratterizzavano facevano intanto avvertire sempre più anacronistica e gravosa per Atripalda la sua antica soggezione nel campo ecclesiastico al Capitolo della cattedrale di Avellino. Erano ancora i canonici avellinesi, infatti, a nominare il rettore pro tempore della chiesa di Sant'Ippolisto, eretta in parrocchia nella seconda metà del XII secolo, esercitando così una sempre più contestata supremazia sulle strutture ecclesiastiche atripaldesi. Tale stato di cose rimontava, come si è già avuto modo di ricordare, alle origini stesse di Atripalda, ed anzi antecedentemente alla nascita del nuovo centro, quando il suo territorio faceva ancora parte, a tutti gli effetti, di quello di Avellino. Questa dipendenza, progressivamente superata nel campo politico-amministrativo, si era invece conservata pressoché inalterata nella sfera ecclesiastica. Ad una risoluzione logica e naturale della questione, giunta a maturazione già nel secolo XIV, si opponevano però gli ostinati irrigidimenti provocati dalle rivalità campanilistiche e commerciali esistenti tra i due vicini centri. A complicare e ad esasperare ulteriormente le cose intervennero poi, nella prima metà del '400, i torbidi provocati dalle lotte tra angioini e durazzeschi e tra angioini ed aragonesi; lotte che videro Avellino ed Atripalda, al seguito dei rispettivi signori, Caracciolo ed Orsini, schierarsi sistematicamente su fronti opposti. Di qui scontri, odii e tensioni tra le due comunità. Ma tutti i tentativi, anche i più audaci e fantasiosi, messi in opera dagli atripaldesi, come quello di far trasferire ad Atripalda la sede vescovile di Montemarano, rimasero alla fine senza esito, e di conseguenza la dipendenza dal capitolo avellinese restò.
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